"Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas" («Non andare fuori, rientra in te stesso: è nel profondo dell'uomo che risiede la verità»).
Sant'Agostino sosteneva che il processo conoscitivo non può che nascere all'inizio dalla sensazione, nella quale il corpo è passivo, ma poi interviene l'anima che giudica le cose sulla base di criteri che vanno oltre gli oggetti corporei.
Noi tutti siamo costantemente rapiti in ogni evenienza, sia essa quotidiana che periodica, dalla molteplicità delle cose a noi esterne.
Non c'è più quella dovuta attenzione al proprio io, alla propria dimensione dell'essere, alla propria intima relazione con se stessi.
Guardiamo sempre fuori di noi e mai dentro di noi. E' in quel preciso confine tra l'Io e l'altro che si apre il profondo dirupo della dispersione, del disordine e della totale insipienza.
L'opera realizzata vuole essere l'espressione proprio di quell'attuale distrazione che l'uomo esercita verso se stesso, non ponendo più alcuna importanza alla propria introspezione, attratto com'è dalla frenetica successione di eventi del proprio vissuto. Ma ecco l'elemento sorpresa: proprio nell'istante di abbandono totale alle superficialità del mondo esterno, quel richiamo inaspettato, improvviso, non calcolato a guardare di nuovo se stessi. In quell'incrocio di sguardi tra lo spettatore e la maschera (che poi ognuno di noi indossa) accade qualcosa. Improvvisamente dai colori, dalle congetture interpretative e dalle attribuzioni simboliche, il baricentro si capovolge e l'attenzione si riverbera sull'osservatore...
Se vogliamo l'opera è anche un tentativo di interpretazione della ben nota esortazione «Conosci te stesso» (in greco antico γνῶθι σαυτόν, gnōthi sautón, o anche γνῶθι σεαυτόν, gnōthi seautón) una massima religiosa greco antica iscritta nel tempio di Apollo a Delfi.
Ad oggi è probabilmente l'opera che maggiormente mi rappresenta, per la sua peculiarità simbolica.