CATEGORY
DIMENSIONS
250.00x75.00
YEAR
2018
TECHNIQUE
oil on canvas
PRICE
Not for sale
ABOUT THE WORK
«Il piacere più grande ce lo danno i frammenti, e non a caso nella vita proviamo il più grande piacere... Read More
«Il piacere più grande ce lo danno i frammenti, e non a caso nella vita proviamo il più grande piacere quando la vita stessa ci appare come un frammento, e come il tutto è per noi raccapricciante, come è orribile, in fondo, la perfezione di tutto ciò che è compiuto»
Thomas Bernhard – Antichi Maestri
La modernità ci ha consegnato una realtà sempre più frammentaria, composta di sovrapposizioni di rovine, aneliti di speranze infrante, cui è necessario far riferimento per comprendere la nostra storia.
Berlino conserva nei suo lacerti e nei suoi “segni” le diverse idee di città che sono andate stratificandosi nella sua evoluzione: dai singoli edifici, oggi veri e propri monumenti, progettati da Schinkel in epoca prussiana, ai progetti mai realizzati da Hilberseimer, Gropius e Mies Van der Rohe per la Berlino moderna; dai resti monumentali del piano per la Capitale del Terzo Reich di Albert Speer, all'edilizia civile postbellica e i successivi tentativi di restauro della prima Germania divisa; infine dall'esperimento dell'IBA (Internationale Bauausstellung, 1979-1987), maturato nell'esperienza della più dura violenza fatta alla città stessa, con la costruzione del Muro di divisione tra Est ed Ovest della capitale tedesca, alla Berlino del Senatsbaudirektor Hans Stimmann dal 1991 al 2006, che con la cucitura di questa profonda ferita ha dovuto fare i conti.
Se infatti una città non possiede nel suo sviluppo un unico “senso”, essa sembra perlomeno avere un unico “destino”, che va concretizzandosi nell'esistenza della città stessa, e come giudice inequivocabilmente conserva i suoi caratteri essenziali e getta via ciò che non può avere permanenza.
L'identità urbana si conserva in nuce tra le stratificazioni della città, e solo attraverso una memoria operante le rovine da mute macerie possono acquistare la loro attualità e operatività progettuale, costruendo il passato con l'occhio prospettico del proprio presente.
In questo modo Dino De Simone si avvicina allo studio di Berlino e ne ricostruisce lentamente la “forma urbana”, rappresentata in “scena urbana”.
Più che alla città in sé, nella sua unicità, il punto di vista è rivolto all'Architettura della Città come manufatto, composto di parti, comprensiva di tutte le tracce rinvenibili, ma anche di quei legami in assenza coi suoi elementi perduti.
In questo vi è una prima analogia con “L'Angelus Novus” di Walter Benjamin, citato in più disegni: lo stesso viso rivolto verso la catena di eventi del passato cui dare senso nel presente, lo stesso interesse per le parti, i processi e i modelli dell'architettura, ed anche la stessa “frammentarietà”, come tipo di scrittura testuale, in cui la tecnica del montaggio di impressioni, idee, citazioni e riferimenti, nel loro accostarsi lasciano emergere significati inediti.
Così elementi diversi convivono nella stessa scena urbana, svelando la capacità di fare progetto della composizione o ri-composizione del disegno e della pittura, riconducendo le parti ad un “senso”, che tuttavia non è mai del tutto conclusivo, perché queste scene berlinesi non sono fine a se stesse, condotte da un'operazione a priori, bensì il frutto della 'contaminatio' dei linguaggi e delle esperienze artistiche e architettoniche, che ci hanno traghettato nel nuovo secolo, e degli strascichi delle tragedie della storia.
Va così in scena il dramma dello storico, che non può nascondere dietro la pretesa di oggettività, gli scarti autobiografici cui la memoria può condurre, quando sospinta dalla passione.
In questo senso il titolo “Cronaca Berlinese” è quasi un elogio a questo paradosso artistico e scientifico sulla verità: il termine “cronaca”, che di per sé rimanda ad una sintesi oggettiva di un'analisi disinteressata, si tramuta di fatto in “narrazione”, riallacciando i fatti in un discorso sulla città, che lascia trasparire una piega emotiva, ricordando come in fin dei conti «l'analisi non è una scienza fredda, (ma) passa nei cuori e li scuote.»
La figura di Walter Benjamin, citato letteralmente in alcune scene accompagnato dalla sua valigia scura, contenente il disegno di Paul Klee “Angelus Novus”, quasi un simbolo che evoca il bagaglio della memoria, è una sorta di analogo dell'autore stesso delle opere. Entrambi viaggiatori solitari nell'architettura della città, attraversando gli höfe berlinesi, luoghi che conservano nel rapporto tra spazio pubblico e privato il carattere costitutivo della città europea, alla ricerca instancabile di un senso per l'esistenza umana all'interno della metropoli moderna e dei suoi significati più profondi.
Significati e sensi che vanno forse cercati proprio nella capacità della memoria di scavare nella storia e stringere legami tra i frammenti, riportandoli ad un 'logos', ad una 'forma', che ne conservi tuttavia il loro carattere singolare.
Una concetto che può esser meglio spiegato, usando le parole della “Autobiografia Scientifica” di Aldo Rossi, uno dei riferimenti non nascosti, alla base del “progetto” di De Simone.
«Ogni luogo è singolare proprio nella misura in cui possiede sterminate affinità o analogie con altri luoghi; anche il concetto di identità e quindi di straniero (…). Ogni luogo si ricorda nella misura in cui diventa un luogo di affezione o nella misura in cui siamo immedesimati».
E allora si spiega l'elezione di alcuni luoghi Berlinesi a riferimenti costanti di questa serie di rappresentazioni, come la Spreeinsel carica di tutti i suoi musei, il progetto dell'appena citato Rossi per il Deutsches Historisches Museum, o ancora il fiume stesso della Sprea; luoghi che rappresentano la memoria collettiva e che restituiscono senso di appartenenza e quindi identità civile, al di là dall'essere cittadino o forestiero, ma comunque e sempre individuo di questa civiltà.
Sono luoghi “monumentali” che si fanno carico di tutti i lutti e le tragedie che hanno investito la capitale tedesca, ma che riguardano tutta la storia dell'uomo.
La ripetizione quasi esasperante di queste architetture rammemora e al tempo stesso fornisce i valori per poter continuare a costruire la città, come manufatto umano di vita civile; il ripetersi del riconoscimento di se stessi nei luoghi e nelle espressioni della città, crea quell'affezione e partecipazione emotiva, per cui è lecito assumere ogni città, come la propria città, e quindi Berlino come propria capitale. (Luca Cardani)
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