Questo lavoro cerca di stabilire un nesso di continuità tra l’osservatore e l’opera d’arte, attraverso la dissacrazione e la provocazione. L’idea di portare la valenza di significante oltre lo stereotipo consumistico, con grandi mostre e musei in cui si compie una fruizione massificata, omologata a una conoscenza di maniera. Ecco lo sforzo di evidenziare l’insieme dei significanti come parte di una grammatica visiva non decorativa ma simbolica, efficace a sostenere un sistema linguistico, una testimonianza, un messaggio. L’opera d’arte rifugge dall’illustrazione per posizionarsi sul terreno dell’interpretazione, dell’esaltazione, della celebrazione, ma tanto più mercifica tanto meno riesce a “bucare” il tempo, a fare sintesi. E il suo insieme si articola in dettagli e particolari che fanno dell’opera una tavola di senso compiuto agli occhi del conoscitore.
Come riuscire a porre il tema attraverso la fotografia? Fin dalla sua apparizione i rapporti tra arte e fotografia sono sempre stati problematici. I sistemi ottici e meccanici capaci di registrare la luce riflessa dai soggetti, i processi chimici, la riproducibilità tecnica; questi elementi in contrasto con il concetto di unicità e irripetibilità dell’opera han sempre suscitato diffidenza nel mondo dell’arte. L’ambiguità implicita delle immagini fotografiche che oscillano tra creazione e professione é stato un limite per definirle produzione artistica con una loro propria identità e autonomia.
Individuare nell’opera un elemento caratterizzante e obbligarci a guardarlo davvero, selezionarlo afferrarlo e metaforicamente distruggerlo.
La conclusione è una serie di lavori nella forma del dittico, accostando l’operazione di selezione e ideale trafugamento con la prova fotografica della distruzione, dell’oltraggio compiuto. L’attenzione dell’osservatore a questo punto sarà richiamata a scandagliare l’opera, senza trascurare gli elementi compositivi e le possibili variazioni che mentalmente possiamo produrre.