GRAZIOLI STEFANIA
“Siamo ciò che ripetutamente facciamo”
di Lorenzo Bonini
Prefazione
La ricerca pittorica emergente in Italia intorno al 1970 si configura in modi sempre più marcati come ricerca specificamente analitica sull'arte, e sulla pittura e perché essa si colloca, anche da noi, in un rapporto di continuità - discontinuità con le correnti pittoriche non oggettive degli anni sessanta. Artisti come Nigro, Dorazio, Castellani, Burri, Fontana, hanno certamente offerto, con la loro opera di riduzione ai valori elementari del linguaggio artistico, più di un suggerimento agli artisti più giovani impegnati nella pratica di una nuova pittura. Ma ancora una volta, non bisogna trascurare la presenza sempre attiva dei maestri dell'Astrattismo storico e l'influsso della pittura americana del secondo dopoguerra, da Josef Albers a Rothko e Reinhardt fino a Morris Louis e Kenneth Noland allievo di Albers. Questo vuol dire che gli artisti interrogano spregiudicatamente la tradizione moderna e, all'interno di questa, le linee di ricerca che avevano già posto la questione di una verifica radicale del linguaggio dell'arte, di un suo azzeramento e di una sua ricostituzione su nuovi e più sistematici fondamenti. La pratica recente della Nuova pittura si presenta, quindi, in Italia, come spostamento del limite, che sembrava invalicabile, segnato dalle posizioni estreme di Malevitch, Mondrian a Reinhardt, essa dichiara: “ Che l'ultimo quadro non è stato ancora dipinto, che l'arte riprende continuamente le sue figure, anche se le varia in modi altrettanto continui, ponendo così il problema preliminare di una ridefinizione del quadro a partire dai suoi costituenti di base, e, più in generale, della possibilità intesa come trasmissione di immagini mediante le due dimensioni della superficie, di porsi in relazione con la tridimensionalità dello spazio reale”.
L'opera di Stefania Grazioli muove proprio da questo problema fondamentale, del rapporto cioè tra superficie e rappresentazione. Nel 1988 si laurea all’Accademia di Belle Arti di Torino con specializzazione in scenografia. Ciò che principalmente caratterizza la sua produzione è, quindi, la sperimentazione, la messa a fuoco e definizione delle proprie linee artistiche, ma anche il faticoso confronto con il limite derivante dall’incontro tra il proprio estro creativo e il bisogno e la domanda dei propri interlocutori. Il suo studio d’arte si trova nel cuore storico della cittadina in cui vive, dove hanno luogo mercati, attività di commercio e di scambio. E’ qui che progetta e sperimenta le tecniche. Si tratta di tecniche che esprimono la formazione accademica curata nelle sfumature e nei giochi di colore, i cui fondamenti hanno origine negli insegnamenti del suo maestro, Luigi Mainolfi. Viene a contatto diretto con l'opera di Rothko e di Reinhardt visitando le mostre e s’interessa alla scultura minimale. Nelle opere di questo periodo fa ricorso a forme geometriche per realizzare un’ambiguità spaziale e fornire, così, indicazioni al di fuori dei canoni prospettici tradizionali, punta essenzialmentesull'ambiguità, nel senso che ama definire la sua ricerca di opposizione, per quello che essa è “assenza pittorica”. Come dice lei stessa, l'ambiguità spinge una cosa da due parti, così il suo quadro si attesta nella concretezza della forma rettangolare priva di supporto che lo racchiude e delimita. È il polo della percezione che esige la presenza fisica della cosa, la concretezza della bidimensionalità pura della superficie, la materialità del colore ottenuta per stratificazione di materiali di recupero, dove riconosce alla percezione tutti i suoi diritti, tranne quello, per lungo tempo assegnatole, di definire la totalità dell'atto pittorico e della sua fruizione.
Ora, l'artista spinge la ricerca dall'altra parte, cercando di definire una "mappa idealista ", di rappresentare un’altra dimensione rispetto ai dati immediati della percezione, come nell’opera “Visus Conico”. Dove l’idea si concretizza in struttura diventando risposta al problema: delimitare e presentare questa struttura nella concretezza di quadro come nuovo procedimento pittorico che si svolge, attraverso una serie di segni oppositivi, di qui l'attenzione che l'artista dimostra per la serie Più e meno dipinta da Mondrian di fronte al mare del nord sul molo di Scheveninghen: “Soppressione dell'anima”, l'opera si presenta particolarmente sottile, propone una ridefinizione del quadro, muovendo dai dati primari della superficie-supporto e del colore; ma la relazione che cerca tra questi dati non si fonda sulla loro continuità, sulla loro fusione nella struttura compatta e unitaria del quadro "astratto" tradizionale, bensì sulla discontinuità che scolla e divarica i nessi sintattici e ripropone la pratica della pittura come un processo di decostruzione-costruzione. Questo processo di scollamento e di analisi, per cui gli elementi costitutivi del quadro esibiscono se stessi, si presentano, per così dire, in prima persona, parlano di sé nel momento in cui aprono il discorso sugli altri elementi con i quali entrano in relazione: il colore parla del colore, la superficie della superficie e insieme discorrono dello spazio, lo spazio del quadro, che ad un certo punto ha una piena autonomia nei piani di colore e di sovrapposizioni spaziali, sia mediante la traccia di elementi lineari sia dalle forme geometriche, che all'interno della riquadratura dell'opera ci sottopone riscontri e risultanze della componente materica, una partecipazione sugosa e una adesione empatetica d’identificazione attraverso cui è realizzata la cognizione estetica, attraverso il gioco vario degli spessori, delle sovrapposizioni delle aree e piani cromatici. Le superfici sovrapposte subiscono lo schiacciamento a caldo rigorosamente progettate e volute con brevi tratti lineari in realtà con una distribuzione fondata su calcoli razionali, come in “Zenomania” che rappresenta la ricerca intorno a un'arte sistemica condotta attraverso l’uso e il riciclaggio di materiali plastomeri, nati per l’utilizzo ultimo di una società moderna evoluta. Il fatto nuovo che emerge da queste opere di Stefania Grazioli è il modo di porsi nei confronti dell’esperienza storica, un modo analitico che tende a raffreddare i dati di partenza quale il gesto e il segno, un espressionismo che non da e non ha importanza perché espressione di un’emozione, è e rimane piuttosto il metodo dell’espressione che suscita o può suscitare il loro interesse, questo è il problema che si pongono i giovani artisti, è quindi un controllo critico del procedimento, un'analisi del fare arte nel momento stesso in cui fanno concretamente arte, rappresentato in maniera inequivocabile con “Siamo ciò che ripetutamente facciamo”. Un'arte che trova nell'anarchia linguistica e visuale, quel continuo nomadismo comportamentale il suo massimo grado di libertà ai fini della ricerca; arte come stimolo a verificare continuamente il proprio grado di esistenza mentale e fisica, con l’urgenza di un esserci dinanzi agli occhi della comunità, per condurli al cospetto intellettivo e reale di ogni azione umana, quale soggetto da integrare e giudicarsi.
Milano 31.07.13