In principio fu la semplicità.
Si potrebbe pensare all’evoluzione del mondo, dell’uomo, della storia e della scienza, come ad un aumento del grado di complessità.
Per chi ci crede, ed è sempre richiesto un atto di fede assoluta, la scienza ipotizza come origine il Big Bang. Da una massa ad altissima densità, ma allo stesso tempo estremamente semplice, unica – non c’era altra massa all’infuori di essa – ad un frazionamento, una crepa nella semplicità.
Da uno ad infinito, universi complessi. Aumenta il grado di complessità. Si creano galassie, pianeti, satelliti, meteoriti, polvere di quell’unità primordiale.
Viviamo nella storia della polvere, degli scarti di quell’atto originario. Ci rigeneriamo nella polvere. Fatti di polvere torniamo alla polvere. Per un lasso di tempo indefinito rimaniamo in grossi grani a forma di ossa. Lasciamo cadere capelli, denti, pelle e rimaniamo nudi sopra e sotto la terra.
L’incontro tra il cielo e la terra soffre dell’incredulità dell’uomo per la sua condizione. Cerchiamo un appiglio sull’impalcatura del corpo per non sprofondare nella semplicità del nostro essere polvere complessa. Eliminata la carne, la sofferenza, il dolore, nudi fino all’osso, all’apice dell’esistenza terrena, fingiamo di non vedere il significante per non cogliere il significato.
Anche nella finzione dell’arte, non ammettiamo il nostro crimine.
Di fronte al cenotafio dell’Altro per eccellenza, ammetteremo la nostra sudditanza?
Siamo in un punto sulla retta del tempo, qui, ora, meno semplici di ieri, meno complessi di domani.
Sveliamo la nostra posizione nella polvere con le nostre tracce, segni di ciò che è passato, simboli di ciò che doveva essere, impronte di sconosciute civiltà nascoste nei libri di storia.
Schiviamo le spine acuminate del sapere, ad ogni colpo una frattura ulteriore, un buco scavato nella carne delle nostre certezze pagane.
Il demiurgo, l’artista, l’archeologo esteta, riscopre la polvere originaria e crea l’opera divina originale.