Ti riconosco anche fuori fuoco.

Ti riconosco anche fuori fuoco.

(Serie, Dittico)

Si può immaginare una persona fatta di carne e di pelle e di ossa e di altre cose che nemmeno conosco?

Ti riconosco anche fuori fuoco è un’intima storia di fotografie di una storia d’amore. Un’autonarrazione, privatissima, che si fa donazione, che supera la paura di affidare a sguardi esterni i frammenti del proprio “discorso amoroso”. Ma soprattutto è la testimonianza della sfida, altissima, che è richiesta quando si deve trasformare una storia di sentimenti in una storia da raccontare.
E così questa storia diventa nove coppie di immagini, da leggere in senso diacronico e figurale, come Dante aveva immaginato. Immagini nitide, che ci ancorano alla realtà, e immagini sfocate, irriconoscibili se lette a rigor di logica ma che ci insegnano che “riconoscere” qualcosa non è l’unica via d’accesso per sentirla. Dante sentiva la presenza di Beatrice anche senza vederla, perché era l’intimo sentimento di amore, di una passione ormai devota, senza più bisogno di concetti che gli faceva vibrare l’immaginazione e la sua vita stessa.
È così anche questo lavoro. Non è astrazione. È anzi la forma più carnale di vivere un altro essere umano. È la potenza di “immaginarla”, con la sua pelle e le sue ossa. Neanche allo spettatore servirà più vederla quell’amata. Sarà già dentro il discorso amoroso.
Ti ho guardata tutti i giorni e ogni volta eri diversa. Piccolezze, ma sempre qualcosa di nuovo.
E sì, ti riconosco. Anche fuori fuoco.

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Lettera aperta di un fotografo innamorato

Mi sono innamorato.
Beh...
Ogni tanto mi torna in mente che la fotografia serve a raccontare anche ciò che ci circonda. Quindi ho fotografato l’amore.

Ho fotografato l’amore?

L’aspetto fondamentale è che c’è un grosso paradosso nel mio lavoro, perché per raccontare la mia amata non mi è bastato fotografarla in quel modo diciamo tradizionale che mi era tornato in mente, ma ho addirittura pensato di immaginare cosa sarebbe successo se avessi avuto la vista un po’ annebbiata.

Perché annebbiata?
Perché dopo un po’ che la scrutavo e che studiavo minuziosamente la sua pelle e contavo i suoi nei e vedevo i suoi capelli cambiare colore in base ai raggi di luce che entravano nella

stanza e che mi accertavo che le sue dita dei piedi fossero dieci e che forse doveva bere più acqua perché con il freddo le si stava spaccando il labbro inferiore, dopo un sacco di tempo passato a fotografarla, l’ho sfocata.
E il motivo è chiaro: a me non serve vederla a fuoco, quello forse è a voi che serve per capire cosa mi è successo. Vi serve, si, che un pochino ve la mostri questa innamorata, perché se no non riesco a spiegarmi come ho lavorato di immaginazione per raccontare il nostro sentimento.

A me non serve vederla perché la sento e la percepisco. Mi bastano piccole tracce visive piccolissime prese a cui appigliarsi. Le prese tipo quelle degli scalatori dico. Quelle su cui si aggrappano con un solo dito, un solo minuscolo mignolo capace di reggere 70 chilogrammi di carne.

La so.
Ecco, la(lei) so(sapere).

E quindi, una volta vista -dico a voi- una volta vista la foto un po’ didascalica e un po’ a fuoco, nitida, reale e rubata da un momento tutto nostro, dove voi in teoria non sareste ammessi ma che alla fine ho deciso di farvi entrare, una volta visto quel minuscolo momento di intimità dove vi svelo piccole parti di lei, siete capaci di sentire le cose che dico?

Forse non ancora.
Allontanatevi.
Guardando adesso le foto grandi, quelle che all’inizio vi sembravano solo della macchie, siete capaci di sentire le cose che dico dell’amore che provo?

(M. Siracusano, Piccolo manuale alla lettura del mio lavoro)