Un’opera concepita e realizzata da Gambasin, come un presagio, pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino.
In essa è facilmente riconoscibile il crollo, la frantumazione di qualcosa che precedentemente doveva apparire solido, indistruttibile.
I colori forti e scuri dei pezzi che si sgretolano suggerisce che essi rappresentino il reale, una struttura rigida che presumibilmente aveva dettato le regole per la sopravvivenza e la convivenza sociale.
La piccola costruzione posta su uno dei pezzi che si stanno distaccando ci indica che il crollo porta con sé tutto ciò che era stato edificato, soprattutto da un punto di vista ideologico, secondo i dettami di quella che si configurava come realtà, storica e oggettiva.
Ma non si tratta di un disfacimento fine a se stesso, vuoto e sterile. Secondo la visione di Gambasin esso ha origine dal desiderio di ribellione verso ciò che limita.
Nasce dal pensiero di libertà che finalmente può uscire dalla sua prigione come un fuoco carico di passione e fervore, per troppo tempo mortificato e assopito.
Si espande, sotto e sopra, e si libra nell’aria com’è la sua natura fare.
Delle piccole figure, dalle sembianze vagamente umane, si distanziano e volano più in alto, sembrano prendere vita in una danza.
In tutto questo una presenza, sulla sinistra, osserva.
Un uomo, il cui copricapo lo identifica come un alto rappresentante ecclesiastico, assiste a quanto accade seduto su un trono, inequivocabile simbolo di potere temporale.
La sua postura e l’atteggiamento sono passivi.
La base regolare e ben definita su cui è posto il suo seggio indica che, nonostante il disfacimento di una realtà, egli è al sicuro, e soprattutto al sicuro è il suo potere.
Non partecipa all’esplosione di libertà, non ne gioisce, rimanendo, invece, nella sua roccaforte che non viene nemmeno sfiorata di quanto accade.
L’opera di Gambasin, dunque, vuole anche evidenziare la resistenza del potere, in questo caso quello religioso, a ogni tipo di cambiamento e rottura degli schemi.
Sabrina Francavilla