Questo
dittico, realizzato dal Collettivo Interno 9, è la combinazione di un dipinto
realizzato con tecnica tradizionale e di un dipinto realizzato con tecnica
robotizzata. Il lavoro va al di là della pura percezione visiva; si radica su
riflessioni che coinvolgano la tecnologia come mezzo esplorativo di noi stessi,
il rapporto tra nuovo e consolidato e gli automatismi visti come estensione del
nostro agire e percepire.
Descrizione
della tecnica:
1)
Il
primo dipinto viene realizzato con tecnica tradizionale da Marco Giacobbe;
2)
Una
persona analizza il dipinto, osservandolo con gli occhi; durante questa fase,
un eye-tracker (strumento in grado di misurare il punto di attenzione degli
occhi) rileva dove la persona punta lo sguardo;
3)
La
traiettoria registrata dall’eye-tracker viene mimata da un robot che graffia
una speciale superficie d’argento. Vedi
video: https://www.youtube.com/watch?v=ArwfMzSc5cA
Per
maggiori dettagli/informazioni sulla performance non esitate a cliccare sul
collegamento al video.
https://youtu.be/9tHsLku4zkw
Il dittico
è associato a un racconto che ne diviene allo stesso tempo parte ispiratrice e
completamento, recuperabile al sito:
https://sites.google.com/view/lavitadovrebbeessereunalinea/r64-lista
Considerazioni sui materiali: l’ambivalenza della tecnologia
La lastra graffiata dal robot è costituita da un
pannello si plastica di (PET) ove è stato depositato uno strato sottilissimo di
pochi nanometri d’argento. Il processo di deposizione metallica, detto sputtering, è complesso: richiede l’uso
di macchine a vuoto. Per dare un’idea della delicatezza del processo, basti pensare
che nel cuore della macchina si verifica quello che avviene all’interno del
Sole.
Ma nell’economia dell’opera, l’intenzione non è quella
di colpire la suggestione del pubblico con aride dichiarazioni altisonanti. Al
contrario, l’utilizzo consapevole di questo materiale, è un richiamo all’ambivalenza
della tecnologia. Infatti, mentre nell’ambito della performance lo sputtering è
a servizio dell’arte, esistono scenari industriali in cui l’impiego è
diametralmente opposto; pochi sanno ad esempio che lo stesso processo viene
impiegato per rendere più performanti (e quindi micidiali) i cupolini dei
caccia da guerra o altri strumenti militari.
Perciò il materiale diviene per noi essenziale sintassi
artistico-comunicativa. Oltre a una denuncia della guerra, manifesta la
fragilità e l’incoerenza dell’essere umano, che riesce ad essere nel contempo,
creatore e distruttore, genio e sragione, empatico ed emotivamente analfabeta.
Anche la scelta di “graffiare” la lastra è
funzionale a questa necessità espressiva. Il segno visivamente viene percepito
come un elemento antiestetico, qualcosa che violenta il materiale, che trappa
la perfetta planarità dell’argento.
Motivazione del dittico:
Fin dagli albori dell’umanità, ogni strumento
inventato per necessità pragmatica, prima o poi ha finito col diventare mezzo
comunicativo di espressione artistica. Ed ora più che mai, nell’era moderna, la
tecnologia è diventata simbiotica con la nostra quotidianità; non è più
separabile dalla nostra dimensione di esseri umani. L’artificiosità è diventata
elemento caratterizzante dell’uomo e della donna, le estensioni digitali
amplificano le azioni, i sensori acuiscono le sensazioni… si può ascoltare il
sussurro di una formica come pure la deflagrazione di una supernova a distanza
di anni luce. Inevitabilmente il mondo dell’arte ha assorbito per osmosi il
comune sentire e progredire dell’umanità.
Ciò non di meno, l’arte figurativa ed astratta
classica, come la pittura, rimane un baluardo che si innalza sopra il mare di
tecnologia. L’essere vivente ha bisogno di colori, di toccare la trama materica
di un dipinto, di cogliere la gestualità del pittore nei segni della tela e di
farsi investire dalle emozioni.
Le motivazioni del progetto proposto sono ispirate
dalla volontà di fare interagire i due mondi: quello dell’arte consolidata e
quello della tecnologia. La performance è come un filo che, a momenti
intermittenti, imbastisce con spontaneità i due elementi eterogenei ma olistici.
Quando un fruitore ammira un quadro, i suoi occhi
saltellano da un punto di attenzione all’altro, attardandosi su alcuni dettagli
ed ammirandone altri. È un percorso percettivo che merita di essere evidenziato
in quanto ingrediente fondamentale dell’opera stessa; un’opera senza chi la
osserva è prodotto sterile. Noi abbiamo dato concretezza a questo processo
percettivo con la misura di un eye-tracker (il mezzo che cattura la fase
percettiva degli occhi). Ma, invece di relegare questi dati a pura informazione
digitale, abbiamo concesso loro corporeità facendo in modo che un robot, in
autonomia, li consegnasse a un altro quadro.
Ecco che i due quadri, quello dell’artista
biologico e quello del robot, diventano una dicotomia: sono separati ma
imparentati, si parlano tra di loro perché il secondo è la “visione” del primo.
Il dipinto tradizionale ha in sé la forza della tradizione e la ricchezza del
consolidato; il dipinto robotizzato manifesta tratti acerbi ma che lottano per
lanciare il loro messaggio. I due sono come un padre e un figlio che si tengono
per mano e camminano senza preoccuparsi di giustificare le loro azioni; sono
sereni, orgogliosi, e guardano avanti. Chi osserva i due lavori coglie con un
colpo d’occhio la magia della percezione e la complicità tra le diverse
tecniche.