La
recente pandemia con il relativo lockdown ha stravolto per molte persone le
quotidiane abitudini. Ha cambiato il modo di lavorare, di fare sport, lo svago,
persino il nostro rapportarci con le persone. Ha chiuso scuole, cinema, teatri,
gallerie d’arte, ha tenuto amori lontani, ha fatto nascere e crescere paure per
la malattia in sé, per la perdita del lavoro, per i problemi economici, per
l’incertezza del futuro. Le persone più fragili sono rimaste segnate. Ha
portato sofferenza e morte. Nello stesso periodo, la mia mamma ha iniziato
l’ultimo capitolo nel lungo racconto della sua esistenza. Ancora la stessa
persona senza più essere la stessa persona, si è incamminata per una discesa
che non lascia alternative, un fisiologico consumarsi di una candela accesa. Il
desiderio di esternare ed elaborare questi due eventi simultanei mi ha fatto
pensare alla Morte della Vergine di Caravaggio, opera dei primi anni del
1600 che, a suo tempo, aveva sovvertito i tradizionali canoni di questa
rappresentazione. La mia Vergine, come aveva voluto Michelangelo Merisi,
è donna, è umana, è persona reale. A differenza della celebre precedente,
circondata e compianta da una serie di persone a lei vicine, è però sola, come
chi in questo periodo muore di Covid19, come mia madre persa in qualche suo
impenetrabile pensiero, come chi è separato dagli affetti. Ma resta umana e sembra dormire. Accanto ha uno specchio, piccolo vezzo ed emblema di
femminilità, forse usato per verificare la dipartita, forse testimone ultimo di
un dialogo vis a vis con se stessi e con la propria coscienza, e
comunque simbolo del doppio (Santa/donna, donna/sposa, sposa/madre),
abbandonato tra le lenzuola, rende Santa la figura altrimenti anonima
identificandola, ad uno sguardo attento, con l’aureola che si crea grazie alla
luce radente del sole che entra nella stanza attraverso una finestra, riflessa
sul muro di fondo.